Le acque di scarico contengono materiali organici che, per decomporsi, assorbono grandi quantità di ossigeno (vedi tabella): in particolare,le acque di scarico urbane ed industriali rappresentano una delle fonti principali di inquinamento idrico. Fino ad ora, l’obiettivo de chi urbani è stato quello di ridurre la concentrazione delle sostanze solide, dei materiali organici, dei composti inorganici e dei batteri nocivi. Recentemente, una maggiore attenzione da parte delle amministrazioni comunali – sulla scorta degli impulsi dell’Unione Europea – è stata rivolta anche al delicato problema del trattamento e dello smaltimento dei fanghi che vengono generati nei processi di depurazione. In sostanza, gli scarichi industriali contengono una grande varietà di inquinanti, ma la loro concentrazione può essere ridotta limitandone la produzione all’origine, sottoponendo il materiale ad un trattamento preventivo prima che esso venga scaricato nella rete fognaria oppure depurando completamente gli scarichi presso lo stesso impianto industriale recuperando, eventualmente, le sostanze che altrimenti verrebbero reintrodotte nei processi produttivi. Proseguendo nell’analisi dei componenti indicati in tabella, è evidente che i fertilizzanti e le sostanze ad essi connesse, come i pesticidi o le sostanze chimiche organiche, favoriscano la crescita eccessiva di alghe e piante acquatiche, ma non solo: un’annosa questione è quella relativa alla percentuale di nitrati che le acque usate in agricoltura possono contenere per non essere qualificate come acque nocive alla alimentazione degli ortaggi e, più in generale, dei prodotti dell’agricoltura, anche in considerazioni dei limiti stabiliti dall’unione Europea nella direttiva 91/676/CEE, che, di fatto, impone agli Stati membri la predisposizione di codici di buona pratica agricola atti a definire, ad esempio, le condizioni migliori per l’impiego di fertilizzanti che contengono azoto. Inoltre, è noto ormai da tempo che anche il petrolio, con i suoi derivati, rappresenti una sostanza inquinante, così come alcuni metalli – come meglio si specificherà in seguito – ed, infine, le sostanze o scorie radioattive che, normalmente, provengono:
- dalle miniere di uranio;
- dagli impianti di trasformazione dei metalli ricavati dalle miniere;
- dalle centrali nucleari;
- dalle industrie;
- dai laboratori medici e di ricerca che fanno uso di materiali radioattivi.
Infine, anche il calore liberato nei fiumi dagli impianti industriali e dalle centrali elettriche attraverso le acque di raffredamento può essere considerato un inquinante, in quanto altera la temperatura e può compromettere, in tal modo, l’equilibrio ecologico degli ecosistemi acquatici causando così la morte degli organismi meno resistenti.
Il caso “PFAS” in Veneto. PFAS: che cosa sono?
Le PFAS – sostanze perfluoro acriliche – sono composti che, a partire dagli anni cinquanta del Novecento, si sono diffusi in tutto il mondo e sono utilizzati per rendere resistenti ai grassi e all’acqua i seguenti prodotti:
- Tessuti;
- Carta;
- Rivestimenti per contenitori di alimenti;
- Pellicole fotografiche;
- Schiume antincendio;
- Detergenti per la casa.
Le PFAS sono state rilevate in concentrazioni significative nell’ambiente e negli organismi viventi: nel 2006 l’Unione Europea ha introdotto significative restrizioni all’uso del PFOS, una delle molecole più diffuse tra le PFAS. Purtroppo, per le acque potabili, non sono ancora stati definiti e non esistono limiti di concentrazione nella normativa nazionale ed europea: la Regione Veneto ha comunque recepito le indicazioni del ministero della Salute sui livelli di performance da raggiungere nelle aree interessate dall’inquinamento da PFAS.
Presenza delle PFAS in Italia e In particolare nella Regione Veneto
Nel 2013 una ricerca sperimentale sui potenziali inquinanti “emergenti”, effettuata nel bacino del Po e nei principali bacini fluviali italiani dal CNR in collaborazione con il Ministero dell’Ambiente, ha segnalato la presenza anche in Italia delle PFAS nelle acque sotterranee, nelle acque superficiali e nelle acque potabili.
L’ ARPAV – Agenzia regionale per la Prevenzione e protezione ambientale nel Veneto – si è attivata individuando un’area di contaminazione da PFAS degli acquedotti nelle tre province venete di Vicenza, Padova e Verona.
Ad oggi risulta infatti noto che il territorio altamente contaminato – ove ancora oggi vive una popolazione di circa 130.000 persone costretta, ogni giorno, a bollire l’acqua destinata al consumo umano per evitare danni alla salute che, purtroppo, si sono già verificati in molte famiglie che vivono nella suddetta area territoriale – è stato suddiviso in tre zone e, segnatamente:
- Zona Rossa (ad inquinamento mag- giore), che comprende 30 comuni di cui 13 nel veronese, 10 nel Vicentino e 7 nel Padovano ;
- Zona Arancione: (11 Comuni nel vi- centino, 1 nel veronese);
- Zona Gialla: 45 Comuni, 31 in pro- vincia di Padova, 12 in provincia di Vi- cenza, 2 in provincia di Venezia.
Di seguito si propone un grafico che individua la tripartizione delle zone soggette ad inquinamento;
I lavori dell’ARPAV, coordinati dall’Istituto Superiore di Sanità e condotti, in particolare, attraverso l’analisi sul sistema degli scarichi fognari del territorio interessato – mediante l’utilizzo di filtri a carboni attivi hanno messo in evidenza che le concentrazioni più alte delle PFAS provenivano dal depuratore di Trissino (Vr); tra le principali fonti da cui dipendevano le quantità di PFAS scaricate in fognatura vi era la Miteni s.p.a., industria agrochimica e farmaceutica con sede, proprio, a Trissino, recentemente fallita: proprio 3per questo motivo, la Miteni s.p.a. era stata messa in sicurezza ex art. 245 del Codice dell’Ambiente, attraverso l’introduzione di tre pozzi barriera per l’emungimento dell’acqua, posizionati più a sud dello stabilimento della ditta Miteni, atti a generare un modello di depurazione costituito da due gruppi filtri a carbone attivo.
Purtroppo, la Miteni non è la sola industria che genera PFAS nel territorio in questione e, pertanto, occorrerebbe continuare su questa strada anche per le atre realtà imprenditoriali che producono le PFAS.
In particolare, dopo il caso PFAS è stato scoperto un nuovo inquinante, nocivo anche per i pesci che vivono nelle acque dolci limitrofe ai suddetti plessi industriali: il GenX. Il composto è stato scovato dall’ARPAV nelle acque del vicentino: si tratta di un tensioattivo che sostituisce le Pfas che veniva utilizzato proprio dalla Miteni s.p.a. e, successivamente, riversato nel canale Gorzone che si estende per 70 km a prosecuzione del fiume Fratta nelle province interessate dalle Pfas e dal genX e, purtroppo, reca nutrimento ai campi agricoli del Nord Est e, in alcuni casi, approvvigiona i rubinetti dell’area interessata.
Spiagge bianche di Rosignano: è inquinamento
L’inquinamento del mare è dovuto alle immissioni accidentali od intenzionali di petrolio e di oli combustibili. Gli scarichi degli insediamenti costieri contengono ogni sorta di contaminanti (metalli pesanti, sostanze chimiche tossiche, materiali radioattivi) ed accade sovente che le industrie non adempiano al meglio le operazioni di depurazione, così ingenerando problemi anche di salute sulle persone che vivono in adiacenza ai suddetti plessi industriali. Peraltro, gli inquinanti sono trasportati dalle correnti marine lungo le coste e in alto mare, ben oltre la nota “zona di commercio esclusivo” che si estende fino a 100 km dal mare territoriale.Anche per questo motivo è necessario un costante monitoraggio da parte delle associazioni ambientaliste onde evitare danni alla salute per la popolazione.
Orbene, la Regione Toscana è al sesto posto nella classifica nazionale per numero di reati ambientali accertati, legati, in particolar modo, al riciclo degli stracci, allo smaltimento dei liquami, dei fanghi e dei rifiuti solidi. Tra i casi più noti di inquinamento, vi è quello della multinazionale chimica belga Rosignano Solvay, che ha uno storico stabilimento, da oltre un secolo, in provincia di Livorno.
Il sito Solvay presenta una contaminazione dei terreni e delle acque sotteranee causata dalla presenza di arsenico, mercurio, composti organoclorurati e Pcb – composti organici dalla tossicità simile alla diossina. I lavoratori della Rosignano Solvay sono i primi soggetti esposti alla contaminazione, ma vi sono anche coloro che abitano nelle case costruite in adiacenza del sito industriale, i bagnanti che si accalcano in una spiaggia limitrofa, considerata erroneamente come un paradiso caraibico atteso il colore bianchissimo della sua battigia e, naturalmente i pesci che ivi vivono.La Rosignano Solvay sversa perennemente materiali tossici nel mare e, già nel 2009, la Procura di Livorno aveva svolto un’indagine contro la Rosignano Solvay per reati ambientali, quali l’inquinamento di acque. In particolare, l’Arpat aveva scovato quattro punti di scarico abusivi e procedure di annacquamento dei fanghi in contrasto con le leggi ambientali. Il procedimento si chiuse nel 2013 con un patteggiamento da parte dei dirigenti. Sulla scorta di tale indagine, il Comune di Livorno aveva approvato un progetto di bonifica e di messa in sicurezza delle acque sotterranee attraverso un sistema di barrieramento idraulico che aveva lo scopo di impedire l’ulteriore propagazione della contaminazione: il sistema, formato da 41 pozzi di emunginamento, è entrato in vigore nel 2014, ma molti pozzi sono rimasti fermi dal mese di dicembre 2015 fino al mese di luglio 2016.
Una nuova inchiesta, pertanto, ha portato alla luce le connessioni tra l’inquinamento operato dalla Rosignano Solvay e la malattia di molti dipendenti.
Il paradiso di Rosignano è dunque il risultato di anni di scarichi chimici della fabbrica che arrivano in mare tramite il “fosso bianco”, un fiumi- cello color latte che sversa le sostanze provenienti dalla fabbrica.